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Lo studio di Kenzo Tange e Associati a Tokyo

28 maggio 2025

AD Architetti

testo e foto di Roberto Apostolo, 1987

“Dalle vetrine continue il parco imperiale si coglieva nella sua completezza, un momento di stasi nel denso skyline di Tokyo”. Ma andiamo con ordine.

Ventiquattrore prima, al telefono, mi fu risposto da un solerte collaboratore delle studio Tange che era possibile un colloquio con due dei più stretti assistenti del Maestro: Susumu Haraguki e Yoshio Sakurai. Entrambi si erano occupati dei progetti realizzati da Kenzo Tange in Italia, a Bologna e Napoli. Ed io adesso ero qui, in uno dei due piani del Sogetsu School Building, sede dello studio Kenzo Tange e Associati. L’edificio, completamente vetrato, contrastava con l’ambiente circostante caratterizzato da un tessuto di residenze ed edifici bassi. Da qui la città appariva densa, caotica e solcata dai grandi assi autostradali interni. Il grado di umidità, sempre alto in Giappone nei mesi estivi, combinato alle alte temperature, provoca una foschia che non rende leggibili i reali contorni di questo agglomerato urbano che si estende ormai senza soluzione di continuità fino a Yokohama.

“Buongiorno!” In un italiano privo di inflessioni, Susumu  Haraguki mi dette il benvenuto nello studio. Notò il mio stupore al suo perfetto italiano, dal momento che pochi in Giappone parlano così bene una lingua latina, e solo alcuni si esprimono fluentemente in inglese. Precisò subito che aveva imparato la lingua durante i soggiorni in Italia per la progettazione e realizzazione del Centro Direzionale di Bologna. La curiosità che mi coglie ogni volta che entro in un grande studio di architettura, mi giunse anche questa volta, alla vista di tanti tavoli di lavoro con altrettanti modelli dei maggiori edifici progettati, poi disegni, dettagli ecc. Fortunatamente, nel periodo che trascorsi da Tange, mi fu data tutta l’opportunità (contrariamente alle attese) di aprire e interpretare la metodologia di lavoro giapponese.

Lo studio Tange, nonostante fosse sabato pomeriggio inoltrato, era ancora discretamente affollato. Il lavoro in Giappone, molto spesso negli atelier di architettura, si confonde con l’aspetto ludico. Il figlio del Maestro, laureato in architettura  negli Stati Uniti, mi illustrò uno dei progetti su cui lo studio stava lavorando in quel momento: una torre per uffici  a Singapore.

Nella patria del computer mi fu evidente l’approccio artigianale che informa la metodologia di lavoro. Il progetto iniziale veniva affidato a diversi  “gruppi” di lavoro. In Giappone la valenza singola raramente esiste, quindi solo attraverso il lavoro in gruppo l’edificio viene ideato, discusso, progettato e realizzato. Al termine delle prime fasi di ideazione, che comportavano anche la realizzazione di perfetti modelli in scala, una commissione presieduta da Tange e dai suoi più stretti assistenti sceglieva la soluzione successivamente proposta al cliente. L’inevitabile “competizione” interna allo studio, comportava l’ottenimento di risposte progettuali più approfondite e varie.

Dopo le consuete varianti discusse con la committenza, il progetto veniva poi redatto a livello definitivo. Successivamente il progetto veniva raccolto in grossi volumi da consegnare al cliente ed alle imprese appaltatrici. Stranamente, almeno per quanto riguarda il progetto che ho potuto vedere, il computer veniva usato solo per la parte impiantistica, mentre tutta la parte grafica architettonica era realizzata a mano; possibilità forse permessa dall’inesauribile schiera di collaboratori volontari, motivati, puntuali ed efficienti.

Per un occidentale crea sconcerto il senso del dovere che si unisce al significato della frase “ shikata ga nai” che vuol dire “non possiamo farci niente”. Una rassegnazione che ha sfumature diverse da quelle comunemente intese nell’accezione occidentale. In Giappone infatti è concepita come accettazione delle cose che sfuggono al controllo umano. Gli ordini sono sempre da rispettare, non importa se siano razionalmente errati o troppo rigidi, bisogna rispettarli.

Va però detto che rispetto alle grandi aziende giapponesi, nello studio di Tange l’atmosfera è diversa. I progetti possono essere proposti anche dal collaboratore entrato da poco a far parte del gruppo di lavoro, ognuno dà il proprio contributo alla soluzione finale.

Nei colloqui avuti nei giorni successivi, ci fu modo di approfondire la filosofia architettonica che lo studio Tange aveva maturato nel corso degli anni. Kenzo Tange ha risentito dei mutamenti imposti dalla società, dai movimenti architettonici e dall’evoluzione dei materiali da costruzione. Si formò culturalmente in Giappone negli anni quaranta, presso lo studio Mayekawa, poi fu docente presso l’Università di Tokyo. I primi lavori ad Hiroshima e a Tokyo lo imposero all’attenzione della critica internazionale. La sua architettura partì da posizioni razionaliste lecorbusiane, ma ciò che è chiaramente leggibile nelle sue prime opere è la traduzione di dettagli dell’architettura lignea autoctona in elementi in c.a. a vista: travi, mancorrenti, e ritmi formali che si inseriscono nell’architettura moderna.

L’opera che più ha contribuito alla diffusione del suo messaggio architettonico è la realizzazione degli stadi olimpici a Tokyo nel 1964, cui seguirono il Centro Yamanashi a Kofu, le opere in Arabia Saudita, in Australia, a Singapore e in Italia. E’ stato il primo architetto ad aver contribuito efficacemente ad esportare in Occidente il mito del “miracolo giapponese”.

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