
Il territorio, la città e le corderie dal medioevo al novecento
17 giugno 2025

AD Architetti
di Paola Maria Delpiano
(tratto da Le Corderie di Carmagnola, a cura di Paola Maria Delpiano, 2008)
L’ubicazione dei terreni favorevoli alla coltivazione della canapa sul territorio carmagnolese, è messa in luce, per il periodo medioevale, dall’analisi della morfologia dei suoli, dalle ricerche sulla nascita degli insediamenti urbani o suburbani, e dagli studi sulle proprietà feudali e monastiche. Per i periodi temporali successivi è poi ricostruibile attraverso la lettura analitica dei catasti rinascimentali e moderni. E’ invece meno evidente, identificare e descrivere negli aspetti architettonici le strutture edilizie originarie, realizzate al servizio di questa coltivazione: luoghi di stoccaggio del materiale, depositi, ricoveri, laboratori adibiti alla trasformazione della fibra. Arduo poi, una volta eventualmente identificate, collocarle sul loro territorio. Al fine di raggiungere, almeno in parte, questo obiettivo si farà riferimento a ricerche pubblicate in materia di edilizia rurale e cultura materiale, si prenderanno in considerazione i tecta (strutture coperte), le grange cistercensi, le case da massaro, le càneve, i mulini, le peste da canapa e gli ayrali, muovendosi tra dati, indizi ed ipotesi. Per quanto attiene i periodi più prossimi alla contemporaneità tali indagini si fanno relativamente più semplici, poiché, nella ricostruzione di percorsi logici, ci si può avvalere di fonti d’archivio e di manufatti edilizi esistenti, restaurati e riutilizzati; si possono quindi individuare e raccontare vicende relative alle sedi di produzione delle corde, i sentè, e la loro localizzazione urbana, come fornire informazioni sui diversi luoghi di vendita dei prodotti, botteghe, mercati, piazze, portici della città.
Alla cannabis sativa, secondo le considerazioni pubblicate dal conte Nuvolone Pergamo di Scandaluzza, insigne teorico settecentesco in tema di agricoltura, “convengono i siti di piano dolcemente inclinato, in cui le acque scolino a poco a poco, e quelli situati ai pie’ delle colline e de’ monti, nei quali si depositano e formano utile sedimento gli ingrassi dei terreni superiori trasportati dalle acque, quelli coerenti le riviere ed i fiumi, dai quali non vi sia pericolo di inondazione”[1]. Modestamente favorevole dovrebbe allora essere, per questo prodotto, il territorio di Carmagnola in quanto zona caratterizzata, dall’antichità, da periodiche e abbondanti inondazioni alternate a periodi di severe siccità[2], estremamente dannose per l’agricoltura. Al contrario, la città è diventata grande produttrice di canapa, del suo seme e dei suoi lavorati nel nord Italia. E’ interessante indagare come questo sia stato possibile, dal momento che, ancora all’inizio del XX secolo, i Carmagnolesi combattevano tenacemente contro le cicliche esondazioni del Po e dei torrenti, le stesse che avevano contribuito ad alimentare le acque stagnanti e malsane della grande palude nel mezzo della quale, dicono gli storici, la città è stata edificata[3]. Gli abitanti avevano però ben intuito quali aree traessero vantaggio, a livello agricolo, da tali inondazioni: quelle prossime al fiume, là dove poteva avvenire rapidamente il ritiro nell’alveo delle acque esondate che lasciavano sul terreno un fertile “limo” propizio a certe coltivazioni: la canapa tra queste. Qui dunque, dall’antichità, si sono concentrati i lotti destinati alla canapicoltura, identificati già nei catasti rinascimentali[4] con il termine canapalis. In queste aree, a partire dalla seconda metà del XII secolo, si sono focalizzati parte degli interessi economici di famiglie nobiliari e di influenti enti monastici a quella epoca esistenti.
(immagine cartografica terreni Casanova lungo il Po)
La fondazione, nella prima metà del XII secolo, dell’abbazia di Casanova[5], filiazione indiretta dell’abbazia cistercense di La Ferté in Francia, è determinante per il territorio[6]. E’ accertato come i monaci bianchi di Casanova abbiano contribuito in maniera significativa alla trasformazione fisica delle terre e del paesaggio rurale intorno alla città, attraverso l’opera di bonifica di possedimenti agricoli oculatamente accorpati. Peraltro “l’innovativa” struttura di gestione del territorio delle abbazie cistercensi si impostava su una diversa visione di uso del suolo rispetto alle corti ed ai mansi. Se questi erano incentrati su un nucleo, la pars dominica, cioè la terra padronale a conduzione diretta, collegate alla quale vi erano le terre sparse, la pars tributaria, lavorate dai coloni, il sistema delle grange cistercensi era, invece, una sorta di decentralizzazione dall’abbazia consistente nell’insediamento sul territorio di manufatti edilizi isolati e puntuali con un’ampia area agricola ad essi pertinente. Era così possibile mettere in opera un sistema di sfruttamento dei terreni maggiormente organizzato e qualitativamente efficace. Le grange contrastavano poi il rischio di frazionamento delle terre dovuto allo sfaldarsi di antiche e preesistenti proprietà terriere.
La grangia cistercense insediata nel territorio di Carmagnola a mezza via tra l’abbazia di Casanova ed il Po - indizio dell’espansione monastica verso delle sponde fluviali - è quella di Silvarola o Cervirola[7] corrispondente ad un nucleo edilizio ancora oggi esistente, ma ampiamente trasformato. Un atto di acquisto di terreni agricoli del 2 luglio 1163 documenta, infatti, gli interessi dell’abbazia in quest’area; da questa data in poi i possedimenti monastici si estenderanno a ritmo serrato nelle adiacenti regioni di Gastaldicum, Centenaria, fino alla regione Roncum i cui confini scavalcano le sponde fluviali e toccano il territorio di Carignano. Una decina di anni dopo le proprietà agricole cistercensi in queste regioni sono considerevolmente aumentate e strategicamente accorpate, anche per via delle donazioni dei signori di Romagnano, Tondonico, Lomello, Carmagnola, Cortadone e non ultimo di Manfredo II di Saluzzo. La grangia di Silvarola compare ufficialmente in un atto di donazione del 1198 ed è presente, insieme ad altre sette, l’anno successivo nella bolla di conferma delle proprietà dell’abbazia da parte di papa Clemente III.
In regione Roncum o Roncus nella seconda metà del XIII secolo non ci sono quasi più terreni incolti e le acquisizioni vertono sui gorreti, lotti marginali confinanti con il Po. Per alcuni di questi nel 1266 l’abbazia di Casanova arriva a corrispondere 100 lire astesi, somma elevata per l’epoca, e sintomo del grande interesse del monastero per questa zona ove verosimilmente si effettuava anche la canapicoltura. L’attenzione dei monaci verso la canapa doveva inoltre essere legato ad interessi di carattere farmaceutico, essendo la pianta fin dall’antichità utilizzata per fini terapeutici.
E’ documentato che, nella Carmagnola medievale, ci sono poi strutture legate alle grange ed attinenti direttamente la lavorazione della canapa a fini tessili: i mulini. Risale infatti al 1176 il diritto, rilasciato da Ardizzone di Tondonico al monastero cistercense di Casanova, di impiantare mulini con artificia et ingenia, ovvero ruote, mole, macine[8]. Tali mulini corrisponderebbero a quelli ubicati nella regione detta ancora oggi il Molinasso in Salsazio prope Padum, sui quali vantava diritti anche il monastero di San Solutore di Torino, che aveva avuto conferma dei beni relativi ad una curtem Salsasii nel 1159 dall’imperatore Federico I. Nei documenti relativi alla vertenza su questi mulini, che vedrà prevalere l’abbazia di Casanova su San Solutore, si parla esplicitamente di “molendinis eiusdem monasterii et batenderio atque paratorio”, dove il termine batenderio, battitore, segnala la presenza di una pesta da canapa. In ogni caso i diritti vengono confermati ai cistercensi da Manfredo II in un documento del 1198.
La pesta o maciullatojo da canapa[9] è normalmente un edificio isolato - sebbene non si escludano casi di accorpamento al mulino - ad un solo piano fuori terra, a pianta all’incirca quadrata. Il modesto fabbricato, prevalentemente in pietra o in laterizio, è coperto da un tetto a semplice o doppia falda, in paglia, cannicci, solo in tempi successivi in coppi. L’ingegno con vasca e macina in pietra, collocato all’interno del fabbricato, è collegato tramite idonei meccanismi alla ruota esterna mossa dall’acqua del canale che alimenta il mulino.
Lo sfruttamento di energia idraulica dei mulini e dei maciullatoi doveva garantire agli impianti di Molinasso un’intensa e fruttuosa attività, oramai indipendente dalle lavorazioni specificamente agricole, dal momento che nel 1235 si attesta la presenza di un frate “Bernardus grangiarius molendini” per l’atto di acquisto di un terreno prossimo a lotti agricoli già di proprietà dell’abbazia. Tale frate si ritiene fosse esplicitamente addetto alle lavorazioni che avvenivano presso il mulino e le pertinenze agricole situate nell’area nella quale operavano il Molinasso e la grangia di Silvarola[10].
Non è insolita la presenza di un pesta da canapa presso un mulino abbaziale, poichè è risaputo quanto la canapa sia un materiale largamente conosciuto ed utilizzato fin dall’antichità per diversi usi. Usualmente i centri abitati medievali, di dimensioni appena superiori al semplice villaggio, erano dotati di questo manufatto edilizio di proprietà feudale o monastica. E’ però fuori dell’ordinario il fatto che a Carmagnola, con la crescita e lo sviluppo della comunità civile nei secoli successivi, si realizzino ben quattro piste da canapa presso i mulini ad acqua della città[11].
L’impianto edilizio delle grange è un tema dibattuto e di grande interesse per gli storici poichè è ancora oggi problematico estrapolarne una tipologia condivisa e corrispondente all’effettivo stato dei luoghi delle epoche più antiche. Laura Palmucci sottolinea che le grange nascono come tectum, strutture edilizie precarie, al quale si aggiungono il porticum, il clostrum, l’ostalum (stalla), la coquina, tutti fabbricati realizzati verosimilmente in muratura e coperti in paglia[12]. Gli studi di Comba, Davico, Sereno e quelli successivi di Ainardi[13] hanno evidenziato il fenomeno di chiusura progressiva dell’impianto rurale intorno ad uno spazio aperto definito ajra o ayra, a partire da un nucleo iniziale detto la “casa da massaro”, presunta evoluzione del tectum. La “casa da massaro” è oramai un blocco in linea a uno o due piani fuori terra che contempla abitazione, stalla, tettoia cui si aggiungono il forno ed il pozzo. Se, come si approfondirà più avanti, il tectum è archetipo delle strutture edilizie a servizio delle lavorazioni agricole, tra le quali annoveriamo anche la canapa, poco è finora stato analizzato nelle ricerche storiche in merito alla presenza, presso le “case da massaro”, di locali, vani, tettoie, ecc. utilizzati come rimesse e laboratori per attività di trasformazione della canapa. A proposito di locali adibiti al rimessaggio di prodotti, risulta che nei palazzi signorili urbani ed extraurbani dalla fine del quattrocento incominci a registrarsi la presenza di “crotte grandi” chiamate càneve[14]. La parola càneva (anche cànova) appartiene al dialetto veneto e significa “bottega di generi alimentari[15]”, anticamente “deposito[16]”. Càneva e cànova derivano, a loro volta, dal latino tardo canaba o canapa, cioè “tenda[17]”, evidentemente tessuta in fibra di cannabis sativa. Un termine etimologicamente vicino a caneva si ritrova ancora a metà dell’ottocento ad indicare un tipo di contratto tra il proprietario di canapali ed il lavorante: la canaviura[18].
In quanto poi, a locali adibiti alla trasformazione della fibra è utile il riferimento ad una ricerca[19] effettuata sulla grangia della Morra presso Saluzzo, dipendente dall’abbazia di Staffarla, dove da una carta del 22 aprile 1349 si evince che alcuni locali interni all’edificio, quali stalle, fienili e abitazione, erano in origine adibiti a sartoria. In una sentenza del 1482 risulta poi che tale grangia possedesse 54 tavole di terreni coltivati a canapa; presumibile che nella sartoria si lavorassero, insieme ad altri, filati tratti da questo pianta. Stante il fatto che Casanova è identificata come una filiazione di La Fertè insieme a Staffarla, come detto sopra, è lecito supporre che queste lavorazioni, nelle quali i monaci erano particolarmente esperti, avvenissero in altre grange dell’ordine, e che questo potesse succedere anche in quelle carmagnolesi.
Se l’abbazia di Casanova opera a tappe forzate per l’acquisizione di terreni agricoli nelle regioni presso il fiume, va sottolineato che le stesse erano ampiamente ambite, nel XII secolo, anche dagli abitanti costituenti l’allora nascente comunità civile, rurale ed urbana, la quale aveva delle proprietà nelle regioni tra Silvarola ed Po. In un documento del 1185 relativo ancora all’abbazia di Casanova, si parla di una “via que dividit cum comunalia” in regione Silvarola[20], ove per comunalia si intendono genericamente terreni della città. Mentre ottant’anni dopo, nel 1265 e nel 1266, la comunità, messa sotto pressione da Tomaso I di Saluzzo per la necessità di fortificare la città e di provvedere ad opere edilizie di contenimento della palude, deve, per reperire i fondi necessari, vendere terreni[21] siti presso il Po alla potente Casanova, la quale può così portare a compimento la sua politica di espansione territoriale verso le redditizie sponde del fiume.
Risulta poi, dai documenti[22], che agli inizi del XIII secolo i carmagnolesi avessero dei diritti su un mulino. Nel 1203 infatti, quando si ricompone la ribellione[23] degli abitanti nei confronti di Manfredo II di Saluzzo, che aveva imposto pesanti oneri alla città per fortificare, manco a dirlo, la cinta muraria, tra le richieste fatte dalla comunità al marchese, prima del giuramento di fedeltà, c’è la conferma di tutti i possessi ed i privilegi già ottenuti sotto la precedente dominazione dei marchesi di Romagnano, inclusi i diritti sul mulino, presso il quale si potevano così svolgere i servizi necessari.
Intorno alla metà del XIII secolo la città di Carmagnola si configura come un agglomerato con caratteristiche decisamente urbane[24], costituito da un nucleo centrale chiamato di Gardezzana, e tre grossi borghi a questo prossimi: di Moneta a est, di San Giovanni a sud, di Santa Maria di Viurso ad ovest. Il territorio circostante è in gran parte coltivato, ampi prati sono utilizzati a pascolo, diminuiscono le zone a bosco. Insieme alle grange, le strutture esistenti a servizio dell’attività agricola sono i già nominati tecta, che possono costituire il nucleo originario delle grange stesse[25]. Proprietaria di un tectum può però anche essere una famiglie nobile, la quale abitualmente dava in gestione porzioni di terra in forma di podere (a mezzadria) evitando di sovrintendere, al contrario di quanto in uso presso i cistercensi fino al XIII secolo, a vaste estensioni di terra di impegnativa conduzione. Molti di questi insediamenti rurali si trasformeranno lentamente, nei secoli successivi, in struttura edilizia complessa, passando attraverso il sistema degli ayrali e/o della cassina per divenire, in particolari casi, vera e propria azienda agricola alla quale non mancheranno il fabbricato adibito a residenza padronale, il giardino privato e la cappella. Elemento in origine generato da assemblaggi di materiali precari, ma antesignano di successivi e più solidi insediamenti, il tectum fornirà spunti tipologici ai futuri sentè dei cordai.
In un periodo storico come il tardo medioevo, la cui immagine distante e sfocata ci è stata perlopiù trasmessa inzuppata di retorica romantica, è evidente che ci sono invece segnali di una certa dinamicità, dovuta all’intraprendenza di alcuni “gruppi” economici, e di famiglie meno potenti che si stanno mettendo in vista. Ed è nel quadro di questo concreto sentire collettivo che, per garantire il proprio funzionamento interno, la comunità carmagnolese si trova a difendere tenacemente le franchigie concesse dai marchesi di Saluzzo, e nello stesso tempo ha ben chiara la necessità di darsi norme interne rigorose, che permettano di condurre lo sviluppo dell’intero sistema territoriale e rubano. Trascritte negli Statuti[26] cittadini trecenteschi, queste norme sono di notevole interesse perché contengono anche divieti e ammende attinenti la canapicoltura e la lavorazione della fibra. Il prodotto, al quale sono dedicati tre articoli[27], è evidentemente un argomento rilevante nelle attività locali. Un articolo[28] indica, nello specifico, il divieto di macerazione nei canali e nelle balere che alimentano i mulini della città; infatti la malsana abitudine di porre qui a macerare fasci di canapa, anziché nei preposti maceratoi, provocava esalazioni dannose per le persone che abitavano nelle aree circostanti e a volte determinava l’intasamento delle stesse vie d’acqua, con evidenti danni all’alimentazione idrica degli ingenia. Per questo i maceratoi “autorizzati”, detti nasatori poi adacquatori, e localmente sivù, erano posti a debita distanza dai centri abitati; ed è significativo che quattro secoli dopo, nel catasto settecentesco[29] disegnato dal Cerutti, i maceratori siano messi ben in evidenza, in quanto tra l’altro soggetti ad imposta, ad indicazione del profitto che ne traeva il proprietario.
L’adacquatore è una fossa di forma regolare ricavata nel terreno, solitamente a margine dei lotti agricoli. La profondità può raggiungere anche i due metri, ma smorzati da gradoni da poterci entrare in piedi per deporre i fasci di materiale che veniva poi sommerso e zavorrato con pietre o cumuli di terra. Queste fosse dovevano trovarsi non lontano dai corsi d’acqua, in maniera da poterle riempite al momento della macerazione. La realizzazione del maceratoio è, fin dagli inizi, una particolare forma di trasformazione del territorio finalizzata al ciclo della canapa; la sua localizzazione rispetto ai luoghi di residenza, ed in particolare al centro urbano, mette in gioco un’interessante relazione tra la volontà di preservare la salubrità dei luoghi e la necessità di svolgere attività fondamentali allo sviluppo economico: questione antesignana degli ampi dibattiti di epoca ottocentesca sulle situazioni igienico sanitarie delle città.
Per tornare alle franchigie, va detto che anche il periodo compreso tra la fine del XIV e la fine del XVI secolo è caratterizzato dall’alternarsi di provvedimenti di “protezionismo” ad altri di lungimiranti “liberalizzazioni”, a seconda di privilegi da garantire e di interessi collettivi da tutelare. L’ottenere o perdere le franchigie era, molte volte, legato alla capacità di negoziazione dei rappresentanti della comunità nei confronti del marchesato. Una negoziazione che metteva in gioco, la promessa da parte della comunità di realizzare opere edilizie di uso collettivo, ritenute necessarie, a fronte di concessioni marchionali per lo più di carattere commerciale. Se allora vaste aree del territorio agricolo sono state trasformate dall’opera dei monaci bianchi, l’impianto edilizio della città e dei borghi sono spesso il frutto della dialettica tra la comunità cittadina ed il potere feudale: si “barattano” opere di edilizia pubblica a fronte di franchigie commerciali. Ma a volte il carico delle opere pubbliche è parzialmente condiviso anche dai marchesi. E’ infatti Tomaso II di Saluzzo che, nel 1336, riconosce l’importanza della piazza commerciale di Carmagnola e la ricorrente necessità di proteggerla. Fa allora “donazione” al Comune di un terzo della gabella del giuoco e di ogni altra a lui spettante, con l’accordo che i redditi da queste derivanti fossero impegnati nella fortificazione delle mura; insieme al suddetto provvedimento concede franchigia per la libera estrazione di vettovaglie e di ogni altro prodotto, senza obbligo di dazio, a patto che nulla fosse esportato in terre nemiche. E’ questa una tra le prime franchigie[30] che permettono di potenziare l’economia locale, e di favorire l’arrivo di mercanti stranieri attratti da questi favorevoli provvedimenti.
Il XIV secolo, considerato periodo di stati economica quando non di recessione nello sviluppo dell’habitat rurale[31], è per questo territorio occasione di sviluppo, poiché la città sfrutta oculatamente la propria strategica posizione al confine coi territori sabaudi. La ricchezza interna aumenta grazie ai consistenti scambi commerciali che vi si svolgono, la città vive una fase di stabilizzazione della propria struttura interna, e si predispone a mettere in opera quelle necessarie trasformazioni che le permetteranno di tenere il passo con i cambiamenti sociali e di immagine collettiva che saranno propri del secolo successivo. Nel 1395 lotta per difendere le franchigie già ottenute, invia una formale protesta al re di Francia per chiedere la rimozione dell’ordine proibitivo d’esportazione di vettovaglie, e solo cinquant’anni più tardi 1442 contesta Ludovico I di Saluzzo che aveva proibito di andare a battere canapa fuori Carmagnola, ottenendo entro il mese stesso la revoca del provvedimento. Determinante sarà poi l’istituzione delle fiere[32] e la conferma del mercato cittadino, sempre in concorrenza con quello di Carignano. Il mercato settimanale di “generi diversi” si teneva in piazza delle Cherche, oggi Sant’Agostino, separato, per motivi igienici, da quello del bestiame che aveva luogo originariamente nella piazza San Bernardino. Le prime due fiere vengono istituite nel 1410, altre due nel 1480 (della durata di dieci giorni ognuna), altre tre nel 1571 (di otto giorni ciascuna) e l’ultima nel 1821. Le canape avranno addirittura un’area mercatale propria, nell’ottocento.
Fuori le mura, il paesaggio rurale intorno alla metà del XV secolo, è caratterizzato dalla presenza di fabbricati agricoli sparsi sul territorio, nei quali oltre ai vani adibiti a rimessaggio, ricovero animali e mezzi, aumentano gli spazi ad abitazione destinati ai lavoranti. I tecta, a seconda della loro ubicazione geografica o delle potenzialità economiche dei proprietari, evolvono singolarmente in strutture edilizie complesse ed articolate, oppure arrivano, per l’attrazione di elementi analoghi, a formare il cosiddetto ayralis che il Du Cange nel suo Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis[33] definisce “locus vacuus et aedifcio aptus” rimandando al termine “area, ager aut locus qui nec colitur nec aratur”. L’ayralis è dunque un luogo extra urbano non coltivato, e il termine indica sia i fabbricati sia gli spazi aperti dove si svolgono le lavorazioni di prodotti agricoli ovvero operazioni legate alla preparazione dei terreni. E’ l’area in sè, ma il vocabolo indica anche i manufatti edilizi[34] su questa realizzati[35]. Conferma di ciò si ha nella documentazione quattrocentesca conservata presso l’archivio storico di Carmagnola, ove il termine ayralis è ampiamente ricorrente in quanto ai siti extra urbani, e saltuariamente presente in riferimento all’individuazione di manufatti edilizi. Il ricco Galeazzo Cavassa è, ad esempio, proprietario negli ayralis di Moneta di 52 tavole di ayralia [36], come è proprietario di ayralia “sulla via di Casanova (…) presso i prati della fornace” Lorenzo Trabucherio, altro potente signore. Ma ancora più interessanti sono i casi di un certo Giacomo Baglione che possiede ayralis et canapalis[37], e di un tale Antonio Filippini proprietario di un ayrale adiacente suoi terreni adibiti a canapalis che si estendono per una giornata. Questa terminologia, e soprattutto l’affiancarsi dei termini ayralis e canapalis, segnala la presenza di aree e manufatti edilizi, legati alla canapicoltura, alla preparazione dei terreni, ed alle fasi iniziali della lavorazione della fibra. Una conferma del fatto che nell’aira/airale avvenissero anche lavorazioni attinenti la canapa si trova nella dicitura “ajatura del sesto”[38] con la quale ancora nell’ottocento si indicava uno specifico tipo di contratto tra il proprietario del canapale ed il lavorante[39]. In sostanza l’ayrale è un elemento identificabile sia alla scala geografico-urbanistico, sia a quella architettonico-edilizia.
La regolare ricorrenza, ancora nel catasto del 1461, del vocabolo canapalis attribuito a singoli proprietari sancisce qui l’importanza, per l’economia della città, della coltivazione della pianta, oramai ampiamente affermata anche tra famiglie di minor peso economico (come il Giacomo Baglione, non annoverato tra i signori dell’epoca) che avevano cominciato ad acquistare lotti e campi in dismissione delle grandi proprietà monastiche e feudali. Si è messo in moto il meccanismo di disaggregazione di vaste proprietà unitarie, ed aumenta la dinamicità del ciclo di lavorazione del prodotto che si rivela via via più redditizio. Doveva essere, in effetti, in atto una diversificazione dei ruoli e delle figure professionali nel ciclo della canapa, come testimonia la vendita, nella seconda metà del quattrocento, ad un mercante ebreo carmagnolese, di 90 finelli di canapa effettuata da due “imprenditori” Giacomo Ribotta e Giovanni Genovese[40] di Racconigi.
Il crescere progressivo dell’interesse verso la canapa ha un movente preciso, giacchè nel secolo XV è sancito l’ingresso della città, con la sua produzione di fibra, “nell’indotto” dell’industria bellica dell’epoca, le cui commesse arrivavano dai Saluzzo, dai Savoia, dalla repubblica di Genova e saltuariamente anche dall’esercito francese. Eserciti e flotte periodicamente in lotta tra loro ma uniti nel difendere le coste dalle aggressioni degli “infedeli”. Se fin dai secoli precedenti erano rinomate le tele marchesane per la fabbricazione di vele, e non da meno i cordami utilizzati nell’allestimento di galere e vascelli, dalla metà del XV secolo emerge la richiesta di micce d’archibugio, che aumenterà sensibilmente nel secolo successivo. Parallelamente comincia ad affermarsi il commercio della canapuccia, il seme della pianta, particolarmente resistente all’aggressione di agenti patogeni e parassiti.
La produzione di tele, a differenza di quella di cordami, non arriverà localmente ad organizzarsi in forma industriale e neppure proto industriale. Rimarrà un’attività svolta a domicilio, da interi nuclei famigliari, spesso a cottimo. All’interno dell’abitazione contadina[41] la tessitura avveniva su un telaio generalmente posto nella grande cucina ove ci si radunava nei mesi invernali, vano dotato di generoso focolare per riscaldarsi. Spettava poi ai mercanti raccogliere poi il materiale e metterlo sui mercati locali o esteri in adeguate quantità. Le pezze di tela, assemblate presso le officine delle diverse marinerie, andavano a formare le ampie vele delle navi delle flotte costiere[42], ma anche quelle di ricchi mercanti e di potenti armatori. Nella seconda metà del XVI secolo il Piemonte esporta annualmente sulle coste francesi 5000 balle di canapa grezza e tele per un valore di 30.000 lire. L’interesse commerciale legato ai traffici marittimi è peraltro sottolineato dal tentativo che fa Emanuele Filiberto, nel 1572, per dare vita ad una società di navigazione verso il levante; il duca aveva infatti versato la somma di 8.333 scudi, come propria quota parte nell’operazione, ai due soci Andrea Provana di Leinì e Antonio Galleani di Nizza. In ambito militare è interessante ricordare che la nave scuola della marina militare italiana Amerigo Vespucci ha conservato a lungo la tradizione delle vele in canapa carmagnolese, abbandonandola solo quando il divieto di coltivazione della pianta su territorio nazionale, imposto nella seconda metà del XX secolo, determinerà la mancanza di materia prima per la produzione delle stesse[43].
Nel XVI secolo la vendita di materiale grezzo verso le coste liguri è dunque attività significativa, benché non esente da problemi e difficoltà, come prova la contestazione registrata nel 1517 da parte degli “Anziani della città di Savona concernenti l’imballaggio delle canape e frodi che per tal fatto si commettevano” [44] per risolvere la quale si istituiscono due consiglieri con il compito di chiedere un formale giuramento agli imballatori e l’apposizione del sigillo della città di Carmagnola. Ricorrenti problemi sono dati inoltre dal continuo contravvenire alle norme comunitarie: ancora nel 1561[45] si ribadiscono, negli Ordinati, provvedimenti ripetuti nel 1576[46] e nel 1583[47] atti ad impedire la macerazione “nelle acque provenienti da Caramagna correnti e stagnati sino al Mulino Nuovo”, sito presso il borgo di santa Maria di Viurso. I fasci di canapa posti ad adacquare in questi canali davano luogo finanche ad inondazioni.
Nella seconda metà del XVI secolo si intensifica e si struttura l’attività di realizzazione delle corde, svolta tuttavia tra imprevisti e rischi tali da lasciare all’epoca incerte le concrete possibilità di successo e di ricchezza di chi intraprendeva questo mestiere[48]: molti cordai sono, a quel tempo, registrati tra i “miserabili”. Bisognerà aspettare l’inizio del XIX secolo, perché questa attività artigianale arrivi a garantire la sopravvivenza e la ricchezza di intere famiglie di cordai residenti “dentro”[49]e fuori la città.
L’ultimo quarto del cinquecento è segnato dal passaggio di Carmagnola sotto la dominazione sabauda ad opera di Carlo Emanuele I, il quale, conoscendo bene l’eccellenza della canapa locale, nel 1617 rende istituzionale la raccolta di tele, cordami e stracci per “la produzione di corde d’archibugio ad uso dell’armata” e con Ordine Ducale[50] dà mandato esclusivo, esteso agli stati sabaudi, di raccolta di materiale e di produzione di micce ai carmagnolesi Genesio Pellero ed Agostino Bechio. L’anno successivo la commessa è diretta al solo Bechio, e si ripete il perentorio ordine ducale che, in tutti i domini sabaudi, i materiali necessari per la produzione di micce d’archibugio (tele, stracci, corde, ecc) non fossero esportati nè volti ad altro uso, bensì consegnati agli agenti degli imprenditori carmagnolesi. Agostino Bechio, annoverato tra i signori della città, risiede nel borgo di San Giovanni e non risulta, contrariamente a quanto affermato in altre ricerche storiche sull’argomento, avesse sedi operative in Santa Maria di Viurso; morirà nel 1630, a 59 anni, durante l’epidemia di peste, insieme a lui i figli Margherita di 23 anni e Bartolomeo di 21, che svolgevano il mestiere del padre; si salverà un loro lavorante, Melchior Miletto. L’attività[51] di Agostino verrà rilevata da Antonio Bechio, un figlio o fratello. Antonio, nel 1638, fonda la società Bechio & Spinelli, ed ottiene nuovamente il mandato esclusivo dai Savoia per la produzione di micce.
Per farci un’idea di cosa sia un archibugio, si può sinteticamente dire che è un’arma di fine XIV secolo studiata come l’evoluzione del cannone, pezzo d’artiglieria che, dall’inizio del XIV secolo, ha avuto modo di perfezionarsi tecnologicamente[52]. Il primo archibugio è in effetti un piccolo cannone montato su supporto ligneo, ergonomicamente sagomato, predisposto per essere manovrato anche da uomini a cavallo, ed agevolmente trasportato[53]. Il modello successivo al primo (che prevedeva l’accensione della polvere da sparo tramite un filo di ferro arroventato, come per i cannoni) è ingegnato in modo tale che la piastra di accensione della polvere venga raggiunta da una miccia in lino e canapa fissata su una serpentina metallica[54]. L’archibugiere, al momento voluto, avvicinava la miccia ardente alla polvere abbassando il cane, la fiamma (in qualche secondo) si espandeva all’interno della canna attraverso un piccolo foro e la detonazione faceva espellere il proiettile[55]. Svolgere questo “mestiere delle armi” comportava rischi non da poco, perchè l’archibugiere poteva vedersi esplodere negli occhi il proiettile a causa dell’incepparsi, peraltro frequente, dell’arma.
L’invenzione dell’acciarino a piastra non eliminerà l’archibugio dai campi di battaglia, almeno fino alla seconda metà del XVIII secolo. I fabbricanti ed i mercanti di miccia saranno attivi ancora a lungo, se del resto si racconta in una strofa di uno strambotto carmagnolese trascritto a metà settecento dal medico Francesco Paolo Carena[56] che “un ricco negoziante della meca/ condusse quattro sacchi di ruggiada/ con una rete piena di manteca/ per regallar Madonna girostrada”. Risulta infatti che nel 1705 un certo Francesco Gerolamo Gay, carmagnolese di origine, ma residente a Torino, si fregi del titolo di “accensatore generale” delle polveri di Sua Altezza Reale Vittorio Amedeo II. Ha dunque l’appalto in esclusiva della vendita di polveri, munizioni, e miccia; è un mercante della meca. Più tardi, nel 1779, è il carmagnolese Lodovico Peyla ad entrare nella storia per l’invenzione dei “cannellini fosforici”, i fiammiferi, realizzati con piccoli steli derivati dal canapulo, lo stelo rigido interno della pianta di canapa, intinti per un capo nello zolfo sciolto[57].
Nel primo quarto del XVII Carmagnola è duramente segnata dal flagello della peste del 1630 che miete evidentemente vittime anche tra i canapicoltori ed i cordai, come il caso dei Bechio. Riferendoci alle ricerche di Mario Abrate[58], dove sono messi a confronto i dati dei decessi e delle guarigioni degli abitanti urbani e suburbani con i dati della consegna delle bocche del 1621, possiamo individuare le zone di residenza degli addetti alle lavorazioni in canapa. Se in vero le lavorazioni iniziali sono svolte in strutture collocate nei pressi dei canapali, le attività manuali più raffinate sono praticate nelle cassine e sul lotto di terreno retrostante, a volte in strada. Pertanto il luogo di residenza di tessitori e cordari può essere letto come quello di esercizio dell’attività. Si registrano allora[59]: tre famiglie di tessitori in San Giovanni, sei in Moneta, cinque in città, due in Santa Maria ed una negli ayrali di Moneta (complessivamente diciassette). Vi erano poi tre famiglie di cordari in San Giovanni, uno in Moneta, uno in Santa Maria (complessivamente cinque). Da notare la presenza di una bottega di “telle et altre cose di marzaria” posseduta dalla famiglia Cavassa, di un’altra di “sede torte e corami” della famiglia Longo, e ancora di una di “robe di retaglio” della famiglia Valero, tutte dentro le mura[60]. I dati fanno riferimento alle persone decedute a domicilio o nel lazzaretto, ed a coloro che, sebbene ricoverati, ne sono usciti risanati. Il resto della popolazione non è riconducibile a queste statistiche e pertanto nulla si sa in merito all’attività svolta. Annotiamo, a completezza dei dati sopra indicati, che la percentuale di ricoverati a maggio del 1631 (fine dell’epidemia) è più del 20% della popolazione complessiva.
Superata l’epidemia, Carmagnola si apre nuovamente alle relazioni commerciali e nel 1633 viene eletta a capoluogo di provincia sul territorio che comprendeva Carignano, Cercenasco, Castagnole, Lombriasco, None, Piossasco, Piobesi, Scalenghe, Vigone, Virle, Volvera e Vinovo. La città a giudizio dei francesi, che in accordo con la reggente Cristina la occupano per sette anni, è però indebolita dalla presenza degli insediamenti di Moneta e di Viurso troppo prossimi la cinta muraria. Nel 1631 viene così deciso l’atterramento di questi borghi e la loro ricostruzione a “giusta” distanza dall’abitato. Tale operazione, fortemente contrastata dai borghigiani, si protrae a lungo e riesce solo parzialmente. Parte degli abitanti di Moneta si spostano verso Salsasio, mentre quelli di Viurso danno origine ai borghi di san Michele, san Grato e San Bernardo. A dimostrazione di quanto, nel 1635 ancora fosse intatta la città è la descrizione, efficace, resa da monsignor Della Chiesa, vescovo di Saluzzo, che scrive “Se fu Carmagnola nel principio suo terra non molto grande,(…) si trova contuttociò di presente, benché tenga il secondo luogo del Marchesato di Saluzzo, una delle principali del Piemonte, perché passano i suoi abitanti il numero di quattromila anime senza i borghi, i quali essendo fuori le mura, sebbene per la guerra e per la peste dell’anno 1630 siano stati parte dal fuoco e parte dalla soldatesca rovinati, ne fanno però con la campagna quasi altrettanti, come per essere molto ricca e piena di negozianti per cause di frequenti mercati e fiere, le quali con gran concorso delle circonvicine terre e della riviera di Genova si fanno due volte la settimana come anche per essere posta in sito tale che chi ha il dominio tiene a freno tutto quello che di qua del Po si stende, massimamente che essendo cinta di forti muraglie, che girano quasi un miglio, senza pericolo di essere minata, con profondi fossi pieni d’acqua è difesa da un fortissimo castello fatto già più di cinquecento anni orsono, come si vede in alcune scritture in essa rogate, è munita di baloardi, che fatti parte dai marchesi di Saluzzo,e parte dai Francesi mentre tennero il marchesato, la rendono quasi inespugnabile, ed una delle piazze più forti del Piemonte”[61].
Nel trettennio successivo, in un censimento della popolazione del 1665, troviamo diciotto famiglie di cordai: quattordici in città, due in Salsasio e due in borgo San Michele. In questo periodo la città intra moenia ha ancora spazi liberi contigui i lotti edificati; questo consente ai cordai di realizzare corde su terreni ubicati presso le loro abitazioni. In seguito si avvierà una migrazione di questi artigiani verso i nuovi borghi di San Michele e più nello specifico San Bernardo; questo quando l’area entro le mura andava a saturarsi, i terreni aumentavano di prezzo, ed il produrre corde in strada non doveva essere più così agevole causa l’intensificarsi del traffico di persone e mezzi, ovvero l’inasprirsi dei divieti posti dai regolamenti edilizi.
Dati sulla morfologia delle abitazioni fuori il perimetro murato della città si trovano in un resoconto dell’incendio[62] del 1690, che distrugge numerose abitazioni nei borghi suburbani. La maggior parte di queste case e cassine constava di una media di sei/otto travate lignee (la famiglia Sola possedeva però in tutto sessanta, di travate). Quasi tutte le cassine avevano la copertura in paglia, a differenza delle case – tipologia diffusa in città - coperte in coppi. Questa fonte evidenzia quanto proprio l’insediamento di San Bernardo fosse oramai ampiamente esteso; i nuovi borghi garantivano infatti un buon compromesso in quanto a disponibilità di spazi edificabili e ragionevole costo dei suoli. In maniera schietta i dati riportati nei diversi documenti d’archivio evidenziano l’affascinante realtà urbana ed extraurbana del tardo seicento, distante da quella città rigorosamente ordinata nel tessuto edilizio, troppo solida nell’uso dei materiali da costruzione, assolutamente inespugnabile, come è descritta nel Theatrum Statuum Sabaudiae di fine XVII secolo,“album di famiglia” e biglietto da visita delle città ducali.
Il diciottesimo secolo vede lo sviluppo a livello europeo, tra le altre, delle tecniche legate alla trasformazione della canapa primariamente nel settore tessile. I duchi sabaudi, per non essere da meno dei colleghi europei, incentivano l’insediamento, sul territorio piemontese, di imprenditori italiani e stranieri, che si impegnino nella realizzazione di tele fini, utilizzando macchine di “recente” invenzione. L’antesignano era stato Filippo Bailly che aveva cercato nel 1673, con ampi privilegi da parte del Governo, di impiantare una fabbrica a Poirino, senza fortuna. Un successivo tentativo viene fatto, nel 1723, da parte di Robert de Montecamp che presenta al Re un progetto per realizzare una tessitura[63] proprio a Carmagnola, con l’idea di far arrivare esperti stranieri che rendano edotti gli artigiani locali in merito alle nuove tecniche di lavorazione. Il progetto, sebbene regolarmente approvato, naufraga. Nel 1757 il conte di Sartirane sottopone un preventivo, che resterà tale, per una manifattura ove si potessero installare attrezzature all’avanguardia per la pettinatura della canapa e la filatura. Nel 1762 è la volta di Paolo Augusto Danoff di Danzica, esperimento anch’esso senza seguito. L’italiano Giuseppe Daponti insedia uno stabilimento per la produzione di tele fini in canapa ad Alessandria, ma nel 1782 inoltra una supplica al Re chiedendo di potersi trasferire a Torino non essendoci modo, in loco, di sviluppare tale attività. Solo presso gli Istituti di Carità ed i penitenziari di Torino si ottenerrà qualche risultato, incentrato evidentemente sulla grande disponibilità di manodopera[64].
Mentre i “philosophes” delle Accademie italiane ed europee studiano e discutono sull’argomento, a Carmagnola la tessitura della canapa continua su ampia scala sempre a livello di produzione domestica impostata sul nucleo famigliare, come per l’attività di produzione delle corde.
Nella 1734, in un censimento della popolazione risultano essere presenti in Carmagnola: diciannove famiglie di cordai (sette in città, sette in San Bernardo, cinque in Salsasio), quarantotto famiglie di tessitori (nove in città, quindici in Salsasio, quattordici in San Bernardo, tre in San Giovanni, sette in san Michele e Grato), tredici pettinatori da canapa (quattro in città, due in Salsasio, sette in San Bernardo), tre imballatori (due in città e uno in San Michele e Grato), e, intra muros, quattro mercanti di tele, quattro di canapa e due stampatori di tele. Dalla relazione dell’intendente Sicco del 1753, risulterà che in città non vi fosse nessuna fabbrica[65]. Vero, erano tutti artigiani. Tra i cordai i Vasarotto avevano sedi sia in città sia in San Bernardo, e costituiscono un chiaro segnale di scelta di decentralizzazione dell’attività. Va anche rilevato quanto alcune delle suddette attività fossero ancora, in questo periodo, esercitate alternativamente ad altri lavori; soprattutto nei borghi, dove prevaleva il lavoro nei campi, poteva capitare che durante l’inverno i contadini si trasformassero in tessitori, in cordai e in estate in pettinatori da canapa. Un tale Antonio Mosso Cantù di San Bernardo risulta facesse il pescatore, il manovale e poi anche il tessitore. E’ la testimonianza di come all’epoca il borgo fosse caratterizzato, per la sua prossimità alle sponde del Po, dalle presenza di un buon numero di pescatori fluviali che tuttavia non sopravvivevano di questa sola attività.
Coeva al predetto censimento è la realizzazione del primo catasto[66] geometrico, figurato, della città e del territorio di Carmagnola; iniziato da Secondo Sicca di Savigliano, è terminato dal geometra Andrea Cerutti di Sommaria. Il territorio è diviso in 126 valbe, oltre i possedimenti di Casanova della quale viene unito il rilevamento eseguito separatamente nel 1536[67]. Le regioni che più interessano la canapicoltura sono ancora quelle limitrofe le sponde fluviali e quelle prossime il torrente Meletta, segnatamente quelle di: Bottazza, Mariola verso ponente e verso levante, Cornova verso ponente e verso levante, Pralongo, Motta dei Ferreri, Pasticcio, Rotta, Bordella, Molino Nuovo, Devesio, Lame di San Rocho, Geretto, Pasquiroglio, Gardeglio, Bosco dei Ferreri, Colleretto, Ronco oltre il Po, Ronco piccolo (valbe NN 93÷102, 109÷124). Nel Cattastro a Tippi del 1734 sono rappresentati distintamente tutti i lotti di terreno, siano essi gerbidi, boschi, ghiaieti, canapali, ecc, e sono evidenziati tutti i fabbricati extra urbani, disegnati con volumetrie verisimili: chiese, ponti, pozzi, forni, mulini, ruote, piste da canapa e non ultimi gli adacquatori.
L’immagine cartografica zenitale disegnata dal Cerutti descrive un territorio ampiamente antropizzato, dove l’edilizia rurale si distingue per la progressiva chiusura delle aje con fabbricati posti ad “L” o a “C” sul perimetro delle stesse. Alcune cassine, disegnate con generosità di particolari minuti, in vista “pseudo-assonometrica”, presentano un impianto complesso e articolato, intorno a più di un cortile, annessi vi sono orti, giardini, talvolta una peschiera. I borghi, caratterizzati da un’edilizia minore, presentano un disegno urbano dato da fabbricati prevalentemente posti a nastro sulla via principale, quella che dal centro cittadino li raggiunge e li attraversa. Pochi qui, gli eidfici in muratura che si sviluppano nei terreni retrostanti, ortogonali ai primi. Alcuni lotti di terreno in corrispondenza della novecentesca corderia Artuso, oggi Ecomuseo della Cultura della Lavorazione della Canapa, hanno conformazione geometrica simile a quella attuale (cfr. valba N 70). Parte di questi risultano di proprietà della famiglia Solavagione che aveva al suo interno anche dei cordai. Nasce il forte sospetto che, in quel periodo, si trattasse di un’area già utilizzata per la realizzazione di corde, un sentè all’aperto, se non protetto da campate lignee coperte in paglia, materiali reversibili non immortalati dal Cerutti.
Verso la fine del XVIII secolo, confrontando un censimento della popolazione del 1787, sembrerebbe invece registrarsi un’inflessione[68] nel numero di addetti alla produzione di corde, causata anche dalla decisione sabauda, del 1772 di produrre corde a Villefranche sur Mer -storico porto sabaudo fin dal 1388[69] – dove nasce una Corderia Reale lunga ben 185 metri[70]; la decisione determina una minore richiesta di cordami carmagnolesi. I cordai in città scendono a cinque famiglie, i tessitori a due; in Salsasio vi è una sola famiglia di cordai, un solo pettinatore da canapa, tre famiglie di tessitori ed uno stampatore di tele. In San Bernardo le famiglie cordaie sono ancora stabilmente sette, come i pettinatori, altri sette, mentre si riducono a tre i tessitori. Nessun addetto a queste lavorazioni è segnalato in altre zone della città. Va detto tuttavia che questo è anche il periodo di emigrazione[71] dei cordai verso le coste francesi, dove metteranno a frutto la lunga esperienza acquisita in patria e questo potrebbe, almeno in parte, spiegare la flessione negativa di presenze.
Il massimo sviluppo per l’attività di trasformazione della canapa è raggiunta nel corso dell’ottocento, per proseguire, tra alterne vicende, fino al primo dopoguerra. I mastri cordai, come i tessitori e gli stampatori di tele vengono inseriti nella categoria degli artisti[72] che, va precisato, annoverava coloro che eseguivano lavorazioni manuali raffinate, per le quali era insieme necessaria una capacità “concettuale” a livelli diversi. Nel 1807 le famiglie di cordai[73] sono localizzate quasi esclusivamente in borgo San Bernardo[74] che mette in luce una predisposizione alla polarizzazione di addetti a questa attività, che infatti si contano qui in numero di quindici[75]; si aggiungono i pettinatori da canapa, diciotto, i tessitori, sette. C’è anche il primo negoziante in canapa del borgo. Nel primo quarto dell’ottocento vengono abbattute, come in molte città italiane ed europee, le mura tardo rinascimentali della città (si salva solo una piccola parte, oggi detta gli Antichi Bastioni) e si assiste progressivamente ad una consistente crescita edilizia delle borgate fuori il perimetro cittadino anche in funzione della capacità di attrazione delle stesse relativamente alle “specializzazioni” locali. Borgo San Bernardo ha oramai chiara la sua “vocazione”, e nel 1834[76] vede insediate sette grandi corderie (come risulta dal primo censimento delle Industrie locali), rispetto alle quattro insediate in città ed alle due in borgo Vecchio. Molte di queste appartengono a famiglie che da qualche lustro, ma anche più, producono corde, con un sapere trasferito di padre in figlio. E sebbene queste manifatture ci fosse chi poteva produrre cordami lunghi fino a 246 metri lineari, solo quella dei Plassa in borgo Vecchio aveva a disposizione un locale chiuso; le altre operavano in lotti aperti, i cosiddetti sentè. I lotti erano spesso la prosecuzione del cortile del fabbricato rurale di residenza della famiglia. Diverse famiglie di cordai possedevano più di un sentè, e all’occorrenza ne affittavano altri.
La situazione alla metà dell’ottocento vede un’espansione notevole dell’attività delle corderie, che si contano in numero di trenta unità[77] (fabbriche effettive), oramai esclusivamente localizzate nel “borgo dei cordai”. Qui la vicinanza del torrente Meletta, dalla quale si traeva acqua per l’irrigazione dei campi, permette inoltre di realizzare nuovi adacquatori[78], con notevole vantaggio economico per i relativi proprietari.
Grande incentivo ai commerci locali, compresa la vendita di canapa grezza o lavorata, viene dalla realizzazione, intorno alla metà dell’ottocento, della linea e della nuova stazione ferroviaria in borgo Vecchio. Ma sul piano del miglioramento delle vie di comunicazione incidono insieme positivamente interventi quali la realizzazione di ponti, la copertura di gore e balere ed il miglioramento della situazione della viabilità cittadina. Sul torrente Meletta, in corrispondenza della località San Bernardo viene edificato un nuovo ponte in legno[79] che facilita l’accesso ad aree agricole particolarmente idonee alla canapicoltura.
La spinta verso il miglioramento delle condizioni economiche, di quelle igienico sanitarie, ed il decollo del commercio dei prodotti locali porta la municipalità alla decisione di destinare alle canape un’idonea area mercatale in città. A tal fine, nella seduta di Consiglio Comunale del 5 maggio 1853, viene stabilito lo stanziamento di 3.000 Lire per lo studio dell’area idonea all’ubicazione della futura tettoia. Il teologo Ferrero propone l’acquisto di un lotto rettangolare in affaccio su piazza della Ripa, adiacente la chiesa dei Filippini, insistente sul terreno del convento degli stessi, mentre i consiglieri Marengo e Cavallero ritengono meno costoso per la città l’utilizzo di un’area già espropriata presso il sito detto del Sacchirone, a poca distanze da piazza della Ripa. Il notaio Caccia segnala, a sua volta, il sito che dalla chiesa dei Filippini si sviluppa verso levante, in direzione dei macelli della città (a fianco del peso pubblico oggi Museo Navale della Marina Militare, attualmente demoliti) per facilitare l’accesso ai carri giacché “si avrebbe un locale sufficiente ai mercati del canape, delle uve ed altri generi, il quale servirebbe nei giorni piovosi ed invernali di un bellissimo sfogo per il parcheggio degli abitanti”.
Il consigliere Osella suggerisce la realizzazione di un edificio su due piani, collocando al primo piano abitazioni e magazzini da vendersi a privati per recuperare rapidamente liquidità per la città. La proposta più innovativa è però quella del sindaco, Giovanni Sola, il quale vedrebbe bene una struttura mobile costituita da pilastri in ghisa e tetto in zinco “come si vede praticato negli stati esteri” da smontare all’occorrenza e trasportare in altro luogo. La riunione si chiude con l’affidamento d’incarico, al geometra Pietro Maria Cortassa, per lo studio preliminare, urbanistico ed architettonico, del futuro edificio. Cortassa esclude subito la possibilità di utilizzare materiali metallici, in pieno accordo con la coeva tradizione culturale antonelliana. Nel giugno del 1853 presenta un progetto per un’ala in muratura con grandi capriate lignee e copertura in lose di pietra; il fabbricato, ad un’unica manica, prevede la realizzazione di archi a tutto sesto sul fronte che affaccia sulla piazza della Ripa, e murature perimetrali portanti sui restanti tre lati. Il modello di riferimento semplificato, di Pietro Cortassa, è il progetto di Giuseppe Frizzi per piazza Vittorio a Torino, realizzata negli anni venti dell’ottocento: una scenografia grandiosa che aveva destato le attenzioni di tecnici e progettisti anche nelle città di provincia. Il primo progetto per piazza della Ripa, che esibisce bei mattoni a vista, viene però respinto dall’Ufficio del Genio Civile della Regia Intendenza Generale di Torino, perché giudicato labile, sotto il profilo statico, per via dell’eccessiva luce delle campate degli archi ed il gran peso delle lose in pietra della copertura. Cortassa, velocemente, adegua il progetto alle richieste degli ingegneri torinesi che, già alla fine dello stesso anno, esprimono parere favorevole sulla nuova proposta inoltrata.
Niente lose, sostituite da coppi alla piemontese, archi a tutto sesto ad interasse di solo 4,00 o 5,00 metri lineari anziché 7,60, ed un ampio cornicione a finitura dell’appoggio delle capriate lignee della struttura del tetto. La monumentalità e l’imponenza dell’insieme testimoniano e comunicano l’importanza acquisita dal commercio delle canape di allora. L’opera è dichiarata di pubblica utilità dal Ministero dei Lavori Pubblici il 21 gennaio 1854, la spesa prevista è di circa 30.000 Lire, ma solo nel giugno del 1856 arriva il decreto di Vittorio Emanuele II. L’appalto dei lavori al mastro muratore Giuseppe Mattioli per conto dell’impresario edile Giuseppe Gariglio è del febbraio 1857. Il collaudo finale firmato dall’architetto e ingegnere idraulico Michelangelo Bossi di Torino è del gennaio 1858[80].
Un breve intervallo di tempo tra il 1866 ed il 1867 vede trasformare il mercato delle canape in fabbrica di corde, in affitto all’ebreo Moise Levi, tra l’altro con la clausola che il mercoledì, il sabato, i giorni festivi e nei giorni di passaggio delle truppe la tettoia fosse a disposizione della città[81].
Il commercio al dettaglio dei cordami, che non ha una sua specifica struttura pubblica, viene invece esercitato sotto i portici del centro cittadino insieme alle vendite di generi diversi. Può tuttavia succedere che l’esposizione mercatale “spontanea” porti ad invadere l’intero sottoportico ed altresì ad oscurarlo con cumuli di matasse di corda impilate una sull’altra fino alla totale chiusura dell’arcata su via. Per impedire che ciò avvenga, nel giugno del 1878 la Giunta Municipale stabilisce che sotto i portici di casa Gribaudi e della congregazione di San Paolo (luogo appunto preposto all’esposizione di cordami) venga lasciato un passaggio di almeno un metro (sic!), tra le montagne di merci, per il transito delle persone. Questa decisione non basta ad evitare la citazione in giudizio del Comune di Carmagnola, da parte dei fratelli Gribaudi anche proprietari di bottega a piano terra, a loro dire danneggiati dall’occlusione totale dei portici ad opera dei mercanti di cordami nei giorni di mercato. La vicenda giudiziaria si trascina fino al 1889, con una prima vittoria dei Gribaudi, e si risolve durante il processo di appello promosso dalla città, la quale però abbandona la causa a seguito della transazione accettata dalle parti[82]. In vero, già nel 1881, dopo la prima diffida dei Gribaudi, era stato deliberato lo spostamento del mercato dei cordami verso la tettoia delle granaglie. Tra vicende alterne, petizioni, delibere e ricorsi, si stabilisce, nel 1888, che i cordami e i “generi di riviera” vengano commercializzati sotto l’ala delle granaglie, ove rimarranno stabilmente fino al 1910.
Un duro colpo per il commercio della canapa grezza carmagnolse è la perdita, nel 1868, della commessa della Regia Corderia di Castellamare causata da una presunta inferiore qualità del prodotto rispetto alle forniture emiliane e campane. Nessun ricorso promosso dal Comune di Carmagnola con il sostegno dei comuni limitrofi dà luogo ad un riesame dei campioni di canapa inviati al Ministero della Marina Militare. I commercianti devono allora orientarsi verso le esportazioni del prodotto, cercando di superare le questioni relative ai pesanti dazi gravanti sulle merci. Il vivace commercio del seme di canapa, ricercato a livello internazionale per la sua riconosciuta resistenza all’aggressione di agenti patogeni, permette al settore canapicolo carmagnolese, di rialzarsi dignitosamente. Non risultava aver risentito di eccessivi contraccolpi la produzione di cordami; sarà anzi proprio questa a vivere ancora una fase di grande espansione agli inizi del XX secolo, quando si cominceranno a costruire in materiali durevoli alcune tettoie delle numerosi sentè. Esse andranno ad occupare molti dei lotti ancora liberi, dando vita ad un disegno urbano che caratterizzerà nello specifico la morfologia dell’impianto urbanistico locale.
La fine del XIX secolo e l’inizio del ventesimo registrano il più alto numero di corderie e cordai che la città abbia mai ospitato. Persiste la “zonizzazione” nel borgo dei cordai, e nel primo trentennio del novecento, secondo il Registro delle denunzie d’esercizio d’industrai[83], i documenti relativi al Regio Decreto n.748 del 15 marzo 1923[84] sul lavoro delle donne e dei fanciulli ed il Regio Decreto n.458 del 20 marzo 1927[85] sugli orari di lavoro, il Registro ed elenco di tutte le industrie esistenti in Carmagnola desunto dal Censimento 1928, sono installate le seguenti fabbriche e botteghe:
1928/1933 | Agasso Antonio | San Bernardo | |
1928 | Agasso Domenico | San Bernardo | |
1928/1940 | Allerino sorelle | San Bernardo | |
1908/1931 | Artuso Luigi | San Bernardo | |
1908/1928 | Artuso Francesco | San Bernardo | |
1908/1928 | Artuso Pietro | San Bernardo | |
1928 | Artuso fratelli | San Bernardo | |
1928 | Audisio Pietro | San Bernardo | |
1928 | Baldovino Agostino | San Bernardo | |
1928 | Baldovino Catterina | San Bernardo | |
1928 | Berardo Giovanni | San Bernardo | |
1924/1940 | Bertoldo fratelli | San Bernardo | |
1928 | Boglione Sebastiano | Motta | |
1928 | Bordone Giuseppe | Città | |
1908/1914 1940 | Bosco Margherita | San Bernardo (Via Bertola N°23 Torino) | |
1908/1914 1928 | Canalis Michele | San Bernardo | |
1928 | Canalis Stefano | San Bernardo | |
1928/1931 | Capello Domenico | San Bernardo | |
1928/1930 | Carena Pietro | San Bernardo | |
1928 | Caresis Giuseppe | San Bernardo | |
1928 | Carolis Andrea | San Bernardo | |
1928/1932 1940 | Casalis Andrea | San Bernardo | |
1928 | Cavallero Maria | Motta | |
1928/1933 | Cortassa Cesare | San Bernardo | |
1908/1914 | Defacis Antonio e Matteo | San Bernardo | |
1931/1932 | Demichelis Sebastiano | San Bernardo | |
1928/1933 | Ferrero Antonio | San Bernardo | |
1908/1914 | Ferrero Domenico | San Bernardo | |
1911/1914 | Ghietti Pietro | San Bernardo | |
1929 | Ghirardi Guglielmo | San Bernardo | |
1928 | Gioetti Catterina | San Bernardo | |
1928 | Giraudi Giuseppe | San Bernardo | |
1908/1933 | Lamberti Tommaso | San Bernardo | |
1928 | Lamberti Pierina | San Bernardo | |
1928/1940 | Mina Pietro | San Bernardo | |
1928 | Morsetti Giuseppe | San Michele | |
1928 | Novaresio Domenico | San Bernardo | |
1928 | Novaresio Stefano | San Bernardo | |
1909/1932 1940 | Osella Agostino | San Bernardo | |
1908/1928 | Osella Antonio | San Bernardo | |
1928/1930 | Osella Bartolomeo | Via Santi Michele e Grato | |
1928/1931 | Osella Giacomo | San Bernardo | |
1928 | Osella Giovanni | Via San Michele | |
1928 | Osella Giuseppe | San Bernardo | |
1911/1930 | Perlo Bernardo | San Bernardo | |
1908/1915 | Perlo Michele | San Bernardo | |
1940 | Perolo&Osella | San Bernardo | |
1928 | Pilotto Pietro e Paolo | Città | |
1928/1931 | Pistone Battista | San Bernardo | |
1928/1933 | Pugnetti Bernardo | San Bernardo | |
1928/1931 | Pugnetti Emilio e Francesco | San Bernardo | |
1937 | Pugnetti Francesco | San Bernardo | |
1928 | Quaglino e Ghietti | Città | |
1928 | Raggi Fulgido | San Bernardo | |
1928/1930 | Rainero Lazzaro | San Bernardo | |
1928 | Rainero Pietro | Via Santi Michele e Grato | |
1928 | Rostagno Giovanni | Via Santi Michele e Grato | |
1928 | Sandri Andrea | Motta | |
1908/1914 | Secco Antonio | San Bernardo | |
1928/1940 | Sola Giuseppe | Via San Michele | |
1908/1909 | Solavagione Antonio | San Bernardo | |
1908/1911 | Tesio Antonio | San Bernardo | |
1928 | Tirante Antonio | San Bernardo | |
1928/1931 | Tirante Claudio | San Bernardo | |
1940 | Tuninetti Giuseppe | San Bernardo | |
Il Registro sopra citato fa riferimento al Regolamento N°42 del 1903 (Legge N°242 del 1902), applicato per la città di Carmagnola a partire dal 1908, mentre le denunzie ai sensi dei due RD citati si riferiscono agli anni venti e trenta del secolo. Pochi dati sono attinti da carteggi di periodo prebellico (1936-1940). La tabella che inserisco sopra ha bisogno di una “istruzione per l’uso” importante: essa si configura come “trascrizione di documenti d’archivio”, e potrebbe non coincidere con l’elenco esaustivo di tutte le corderie novecentesche carmagnolesi esistite. Vi si riportano i nomi di proprietari di corderie, e non sono invece elencate, perché questi specifici documenti non le contengono, le famiglie di lavoranti che, molto numerose, si autodefinivano esse stesse, a ragione, famiglie di cordai. Avrebbero diritto, queste ultime, di essere oggetto di una successiva e più approfondita ricerca storica.
Per tornare ai nomi in elenco, è evidente che molte corderie hanno iniziato l’attività prima delle data della denuncia registrata nel 1908. Artuso, Agasso, Carena, Cortassa, Tesio, Allerino, Rainero, Pugnetti, Ferrero, Tirante, Solavagione, Osella, Bosco, Baldovino, ecc. sono infatti nomi di famiglie di cordai già in attività a metà dell’ottocento. Le fabbriche sono principalmente ubicate lungo la Via del Porto a San Bernardo, la strada principale che lo attraversa da est ad ovest, e sono in gran parte costituite dai cosiddetti sentè all’aperto, privi di coperture. Solo alcuni avevano almeno una parte coperta, una lunga tettoia realizzata con pilastri in muratura a campate regolari, tetto in struttura lignea e copertura in coppi alla piemontese, rievocazione e ri-proposizione di antichi elementi tipologici di edilizia rurale. E’ il caso, ad esempio, della corderia di Luigi Artuso, oggi trasformata in Ecomuseo della Cultura della Lavorazione della Canapa, la cui tettoia, lunga circa sessanta metri, è stata edificata nel 1905 (come si legge nella targa in intonaco restaurata e conservata presso l’Ecomuseo stesso). Sentè e tettoie si dispongono in posizione ortogonale (direzione nord-sud) rispetto agli edifici residenziali del lungo nastro edilizio che costeggia la via. Il numero di lavoranti nelle corderie non supera quasi mai ufficialmente le dieci unità per fabbrica, cui vanno aggiunti i famigliari. Gli orari di lavoro sono impegnativi, le 10/12 ore giornaliere potevano partire dalle 5,00/5,30 di mattina, per arrivare anche alle 20,00 di sera. Lievi agevolazioni erano previste per le donne ed i fanciulli, che verso la fine dell’ottocento cominciano ad essere tutelati da specifici regolamenti nazionali. Si raggiungeranno poi accordi per una riduzione dell’orario giornaliero e le fabbriche si allineeranno sulle otto ore. Tra i lavoranti, uomini e donne, molti avevano meno di 15 anni, erano in effetti bambini, pochi gli addetti dai 15 ai 21 anni, rari sopra i 21, tra quelli ufficialmente denunciati.
Dai documenti esaminati emergono altre interessanti considerazioni: è evidente, ad esempio, come l’attività di tessitura a cottimo sia praticamente scomparsa. I telai presenti nelle case contadine servono ancora per la produzione domestica di biancheria, ma il mestiere per conto terzi, come praticato fino alla metà del XIX secolo, è oramai decaduto. In secondo luogo è evidente come la Grande Guerra determini una brusca interruzione nell’attività di molte corderie; è il caso di Michele Canalis, Antonio Defacis, Domenico Ferrero, Pietro Ghietti, Giovanni Osella, Michele Perlo, Antonio Secco, che cessano nel 1914 la produzione, solo a volte ripresa dai figli. Altre fabbriche proseguono invece l’attività senza interruzione fino agli anni trenta, per cederla poi direttamente alla generazione successiva. Si segnala inoltre una ventata di modernità e di antesignana emancipazione, nei cinque casi di corderie di proprietà femminile, quelle di Margherita Bosco, Catterina Baldovino, Maria Cavallero, Pierina Lamberti, e quella delle sorelle Allerino. Margherita Bosco, nel primo dopoguerra avvia una bottega di vendita di cordami in Torino. La fabbrica delle sorelle Allerino è registrata nel 1928 e nel 1940, ma proviene da un’antica corderia, impianta intorno alla metà dell’ottocento da Lorenzo Allerino. Delle altre tre i documenti non riportano particolari informazioni. Nella tabella sono poi inseriti i dati relativi a cinque botteghe di cordami o canapa. Tre in città, due nel borgo.
All’indomani della Grande Guerra si manifestano sintomi, per la canapicoltura e per la produzione di corde, di una decadenza che si rivelerà inevitabile e progressiva. L’aggressione del parassita orobanche e l’ingresso sui mercati dei nuovi materiali tessili, futuri mattatori del settore, si rivelano decisivi, mentre i deboli tentativi di salvaguardia delle produzioni nazionali di piante da fibra si mostrano presto inefficaci. E’ l’inizio della fine; si registra una prima restrizione dei terreni coltivati a canapa, con conseguente difficoltà di reperimento della materia prima e del seme della pianta. La situazione non migliora nel periodo del ventennio fascista, con periodi di impennata dei prezzi. Gli anni trenta del novecento sono segnati dalla capillare campagna fascista di propaganda verso le masse rurali e la canapa non è esente da questo fenomeno, che peraltro vuole fare “demagogicamente” leva sul genere femminile. Nel settembre del 1936 si svolge a Carmagnola la Mostra Provinciale della Massaie Rurali ove il pezzo da museo è “una pianta di canapa alta nove metri (sic!) dal fusto sottile e slanciato che svetta in alto con il suo pennacchietto verde”. E’ la retorica del periodo, che emerge anche in affermazioni riportate sui giornali, tra le quali “cosa sia costato e costi agli intelligenti e fattivi organizzatori e alle singole delegate dei Fasci femminili dei piccoli comuni trarre dalla modestia, dalla timidezza…. e dall’ignoranza le contadine avvezze a non considerare il loro lavoro se non come produzione rustica”[86]. Gli stalli (stands) della Mostra illustrano le qualità e le potenzialità dell’agricoltura piemontese, rappresentate da installazioni bucoliche talvolta arricchite da manichini in elegante stile futurista, vestiti da coltivatori.
Intanto la produzione di canapa è considerevolmente diminuita ed il Governo stesso è determinato ad evitare il peggio. Già nell’aprile del 1933, l’anno successivo la nascita dei Comitati Nazionali Canapa, nell’ambito del Convegno Agrario Nazionale di Venezia (espressamente organizzato per trattare del problema della riduzione della superficie nazionale coltivata a canapa) Oscar Bonfiglioli, Ordinario in Portomaggiore, aveva preso atto che “ 1) la restrizione della coltura a canapa porta ad una minore entrata, per tiglio e manufatti esportati, di circa 120 milioni di lire, 2) che la restrizione suddetta porta ad una perdita di salari di oltre 60 milioni di lire, 3) che la canapa non può essere tecnicamente ed economicamente sostituita nelle tipiche aziende canapicole, 4) che il prezzo attuale del tiglio è inferiore al costo di produzione, 5) che l’industria attraversa una situazione di notevolissimo disagio.”[87] Il declino, secondo l’analisi del Bonfiglioli, inizia negli anni venti del secolo, per continuare senza soluzione di continuità fino al 1930; proseguirà poi oltre. Per le fabbriche di Carmagnola si tratta di una crisi enorme; chiudono i battenti una dopo l’altra, non rassicurate peraltro dagli sviluppi inquietanti della situazione internazionale. A poco serve la costituzione del Pubblico Ammasso, che avrebbe dovuto garantire la fornitura di materia prima alle manifatture. L’Italia impegnata nella conquista del suo “posto al sole” si trova in regime di autarchia dopo le sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni nel 1935; si prosciugano le riserve interne. Poco prima della Seconda Guerra Mondiale, nel 1936, le fabbriche di corda si sono ridotte a sette: quattro quelle degli Osella (Bartolomeo fu Agostino, Giacomo, Giovanni e Bartolomeo fu Giuseppe), poi Agasso Antonio, i fratelli Bertoldo e Perlo Bernardo. Ma solo una spicca per numero di addetti e dinamicità nella produzione, quella dei fratelli Bertoldo, in Via del Porto, che in pieno periodo pre-bellico arriva ad avere 150 dipendenti affiancati da alcuni membri della stessa famiglia Bertoldo. Quattro anni dopo se ne registrano undici, una delle quali nata dalla fusione Perlo & Osella. La fabbriche rimaste in attività forniscono il Ministero della Guerra, quello delle Comunicazioni, le Ferrovie dello Stato, la Direzione d’Artiglieria, gli Arsenali di La Spezia, Napoli e Torino, la società anonima FIAT, le Officine Savigliano, e vari altri Enti. Non si arresta tuttavia il problema della fornitura di canapa grezza; un telegramma[88] inviato il 24 febbraio 1939 dal podestà Luda di Carmagnola al Ministero dell’Agricoltura a Roma esprime tutta la difficoltà del momento: “Artigiani cordai Carmagnolesi deplorano mancata consegna fibra canapa già insufficientemente assegnata Punto Procedendosi ora distribuzione canapa da ammasso Carmagnola verso artigiani altre province con minaccia esaurimento disponibilità pregano vivissimamente Eccellenza Vostra cortesemente provvedere MILLECINQUECENTO QUINTALI canapa artigianato Carmagnola luogo produzione oggi posposto altri territori Punto”.
All’indomani della seconda guerra mondiale il tentativo di impedire il rapido tracollo della canapicoltura e dei prodotti derivati è concentrato sui Consorzi Provinciali Obbligatori[89], nati prima della guerra, operazione suggerita dai tecnici del settore ed appoggiata dal Governo. Anche a Carmagnola si è formato quello di competenza, che raggruppa comuni storicamente grandi produttori di canapa. I consorzi riescono solo a frenare il veloce declino e tentano di evitare che gli appariscenti fenomeni di crisi, manifestatisi nel primo dopoguerra, si ripetano amplificati nel secondo. Si auspica che l’Ente consortile così costituito riesca a prevedere in tempo utile gli sviluppi di eventuali avverse congiunture internazionali e suggerirne i rimedi. Le coderie di San Bernardo riprendono in parte la produzione. Riaprono alcune tra quelle che avevano sospeso l’attività durante la guerra, adesso gestite da figli, nipoti, bisnipoti degli originari proprietari. Ma è chiaro a tutti i tecnici del settore che i nemici veri della canapa sono le fibre succedanee le quali, a seguito degli accordi di Annecy, sono esenti da dazio e cominciano ad invadere il mercato per la loro maggiore versatilità ed i minori costi di produzione. I suggerimenti evidenziati nella relazione di Luigi Perdisa, direttore dell’Istituto di Economia e Politica Agraria dell’Università di Bologna, al Convegno Nazionale della Canapicoltura[90] nel giugno del 1950 sulla necessità di migliorare e riorganizzare la produzione (ma anche abbassare il costo di vendita del prodotto greggio) non producono i risultati auspicati. La formazione presso l’OECE[91] del Comitato dei Tessili per la difesa delle due piante tipicamente europee, la canapa ed il lino, non modificano il trend negativo. I territori italiani si riorganizzano quasi spontaneamente da soli, il Polesine si converte lentamente alla coltura della barbabietole, a Pancalieri si valorizza la coltivazione della menta, a Carmagnola si punta, tra le altre, sulla coltura del peperone. Le corderie cominciano a chiudere, gli addetti sono assunti nelle grandi fabbriche tessili o metalmeccaniche, la tettoia delle canape in piazza della Ripa, oggi Alessandro Manzoni, viene riconvertita ad altri usi.
Bruscamente si conclude la storia di un materiale che ha significato impegno, lavoro, passione, fatica, fortune o disastri di intere famiglie carmagnolesi. Le congiunture negative che ne hanno determinato il declino andrebbero più approfonditamente analizzate e capite, con l’obiettivo di reinserire questa pianta tra le alternative possibili dei sistemi eco-sostenibili in materia di energia pulita e di bio-edilizia.
[1] N.Pergamo di Scandaluzza , Osservazioni intorno alla coltivazione del canape nel Basso Monferrato, Torino, 1786
[2] C.Cornaglia nel suo manoscritto Storia della città di Carmagnola dalla sua origine sino al 1920 conta trantacinque alluvioni derivate dal PO e dai diversi corsi d’acqua presenti sul territorio
[3] G.Bucci, Memoriale Quadripartitum, edizione a cura di F.Curlo, Biblioteca della Società Storica Subalpina, LXIII, Pinerolo,1911
[4] ASC, Titolo XV, Catasto, Cat. 2, Registri e mappe, voll. dal n.34 al n.39
[5] L’Abbazia si trova a nord-est della città dalla quale dista circa 4 km. Da Casanova si raggiunge il fiume tramite una strada dritta, oggi secondaria, in direzione ovest-est lunga circa 4 km. La posizione scelta dai monaci per la localizzazione dell’abbazia è quindi il vertice di un triangolo isoscele non casualmente individuato.
[6] R. Comba, L’Abbazia di Casanova:un polo di attrazione di esperienze religiose e monastiche nei secoli XII-XIII, in R. Comba e P. Grillo, op.cit.
[7] G.Gullino, La formazione del patrimonio fondiario dell’abbazia di Casanova (secoli XII-XIII), in R.Comba e P.Grillo, op.cit.
[8] G.Gullino, op.cit.
[9] P. Longo, Archeologia industriale nell’Albese. 1 Mulini, peste da canapa, martinetti, in “Alba pompeia” n° 20, 1999
[10] G.Gullino, op. cit.
[11] ASC, Titolo XXVIII, Statistiche, Cat. 5, Industria, fasc.1, cfr. anche G.Cortassa, La canapa a Carmagnola: una produzione “labour intensive” per lo sviluppo economico di una comunità rurale, Tesi di laurea Facoltà di Economia e Commercio Torino, 1987/1988; G. Cortassa, Produzione, lavorazione e commercio della canapa a Carmagnola, in Memorandum. Bollettino Centro Studi Carmagnola, 1996, R. Agasso (a cura di), Canapicoltori e Cordai, in “Tra Arti e Mestieri”, Centro Studi Carmagnolsesi; W. Giuliano, Carmagnola: Canapa tra passato e futuro, in Studi di Museologia agraria, N°31, 1999
[12] L. Palmucci Quaglino, Le grange dell’abbazia di Staffarla a Lagnasco e Scarnafigi: otto secoli di storia, in R. Comba e G.G.Merlo (a cura di), L’abbazia di Staffarla e l’irradiazione cistercense nel Piemonte meridionale, atti del Convegno, Abbazia di Staffarla – Revello, ottobre 1998
[13] M.S. Ainardi, Dalla grangia alla cassina: la zona di Lucento, in L.Palmucci Quaglino e C.Ronchetta, a cura di, Cascine a Torino, Firenze, 1996
[14] “(questi ambienti) come è stato messo in luce per la casa forte di Torre dei Ronchi, e per numerosi castelli quali le dimore dei Costa della Trinità ad Arignano, dei Monferrato a Pontestura, dei Saluzzo a Manta e per il Castelvecchio di Stupinigi, erano stati ricavati generalmente al piano seminterrato, raramente in quello terreno, usando grandi ambienti che occupavano tutto lo spessore della manica conclusi con poderose volte a botte, opportunamente arieggiati da finestre aperte sopra il piano dell’imposta” C.Bonardi, Cantine da vino in Piemonte: note di architettura nei secoli XV e XVI, in R.Comba, a cura di, Vigne e Vini nel Piemonte Rinascimentale, Cuneo, 1991
[15] G. Devoto, G.C.Oli, Dizionario della Lingua Italiana, Firenze, 1980
[16] G.Devoto G.C.Oli, ibidem
[17] L.Castiglioni S.Mariotti, Vocabolario della Lingua Latina, Torino, 1981
[18] T.Bruna, Canapa piemontese e canapa carmagnola, Roma, 1955. Tale tipo di contratto prevede che il contadino si occupi della lavorazione e della concimazione del terreno, dell’estirpamento e della macerazione delle piante di canapa, ottenendone in cambio un terzo del prodotto macerato. Il proprietario del terreno metteva di suo animali e mezzi per il trasporto dei materiali al macero.
[19] R.Comba, Rappresentazioni mentali, realtà e aspetti di cultura materiale nella storia delle dimore rurali: le campagne del Piemonte sud-occidentale fra XII e XVI secolo, in Atti del Convegno: Problemi della cultura materiale in Italia dal medioevo all’età moderna Bagni di Lucca, 1976
[20] G.Banchio, Primi spunti sull’organizzazione comunale a Carmagnola (sec. XII-XIII), in AAVV, Carmagnola una volta, Torino, 1979
[21] A. Tallone, Regesto dei Marchesi di Saluzzo (1091-1340), Pinerolo, 1906
[22] G.Banchio, op. cit.
[23]“ Nel 1200 Manfredo di Saluzzo diviene signore dell’intera Carmagnola e pensa subito di fortificarla, facendola cingere di fossati e iniziando la costruzione del castello. L’onere di questi lavori ricade interamente sui Carmagnolesi, che devono prestare l’opera manuale, pagare un frodo in denari, sottomettersi a turni di guardia. Vedendosi oggetto di una intollerabile oppressione, i Carmagnolesi stabiliscono di abbandonare le loro case e di cercarsi un nuovo villaggio in cui abitare. Così raccolti tutti i loro averi e collocati su carri, dopo aver nominato un capo e radunate tutte le famiglie, si incamminano verso Chieri. Allarmato da questa pertneza in massa, Manfredo si affretta a raggiungerli e, a S. Martino di Stellone, l’attuale Villastellone, con la mediazione di Rainerio podestà di Chieri, la controversia viene appianata con l’istituzione di un’autorità civile a tutela degli abitanti di Carmagnola”. In Giuseppe Banchio, op. cit.
[24] AAVV, Centro Studi Carmagnolesi, Carmagnola – La rappresentazione storica della città, Carmagnola, 1994
[25] R.Comba, op.cit.
[26] I.Curletti, L’inventario della sezione Cornaglia dell’archivio storico di Carmagnola.Metodi di produzione e di conservazione documentaria in età basso medievale e moderna (sec. XIV-XVIII), Tesi di dottorato, Scuola di dottorato R. Francovich. Storia ed Archeologia del Medioevo, Istituzioni e Archivi (XIX ciclo), Università degli studi di Siena, 2003/2006
[27] ASC, Titolo XVII, Polizia comunale, Cat. 1, Statuti e Regolamenti municipali, fasc. 1
[28] ASC, ibidem
[29] ASC, Titolo XV, Catasto, Cat. 2, Registri e mappe, voll. dal n.34 al n.39
[30] ASC, Titolo XXIV, Commercio, Cat.2, Mercati e Fiere
[31] L. Palmucci, Le campagne tra XIV e XVI secolo, in AAVV, Insediamenti e tipologie architettoniche, Torino, 1983
[32] C. Cornaglia, op. cit.
[33] C.Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, Bologna , 1883
[34] A. Settia, “Airali, “palazzi”, “motte”: aziende rurali fortificate nella zona periurbana di Torino, Cuneo, 2005
[35] Si veda al proposito il caso della cascina “Airale” a Torino documentata in L. Palmucci e C. Ronchetta a cura di, op. cit.
[36] ASC, Titolo XV, Catasto, Cat. 2, Registri e mappe, voll. dal n.34 al n.39
[37] ASC, Titolo XV, Catasto, Cat. 2, Registri e mappe, voll. dal n.34 al n.39
[38] Luigi Re, Coltivazione della canapa, Gazzetta Associazione Agraria, a. II, n. 26, giugno 1844 “Coloro che fanno il canape all’ajatura del sesto non hanno altro obbligo che quello di spandere il letame allorché si concima, di fare le sarchiature, di schiantarlo, di fare i fasei, porlo e cavarlo dal maceratoio e farlo seccare; poi prendono la sesta parte dei fasci ( a Bologna invece il mezzadro è obbligato a fare tutti i lavori al canape a sue spese)”. In Domenica Micchiardi, La coltivazione e la lavorazione della canapa in Piemonte nei secoli XVIII e XIX, Tesi di Laurea, Facoltà di Lettere Università di Torino, 1969 -1970
[39] Domenica Micchiardi, op. cit.
[40] G. Cortassa, op.cit.
[41] Nicola Ghietti, Piccola storia di un borgo di camapagna – Borgo San Giovanni in Carmagnola, Carmagnola, 1989
[42] André Cane, Histoire de Villefranche sur Mere et de ses anciens hameaux Beaulieu et Saint Jean, Villefranche sur mer, 1998
[43] P. Manuele, Canapa, vele e marinai: Carmagnola e Piemonte tra terra e mare, Carmagnola, 2005
[44] ASC, Titolo XXIX, Servizi comunali, Cat.1, Ordinati, vol.4
[45] ASC, Titolo XXIX, Servizi comunali, Cat.1, Ordinati, vol.9
[46] ASC, Titolo XXIX, Servizi comunali, Cat.1, Ordinati, vol.12
[47] ASC, Titolo XXIX, Servizi comunali, Cat.1, Ordinati, vol.13
[48] Nei censimenti conservati in ASC, si trova ripetutamente il termine “miserabile” a fianco dei dati anagrafici dei cordai
[49] E’ l’avverbio di luogo riportato nei censimenti secenteschi e settecenteschi della popolazione per identificare gli abitanti della città murata
[50] ASC, Titolo XXIII, Industria, Cat.1, Stabilimenti industriali e bancari, fasc.1
[51] Gli “operari” della fabbrica erano Giovanni e Pietro Giovanetto, Giacomo Vascheto, Chiafredo Cortassa, Guglielmo Oggero, Francesco Rubinetto, Giovanni Ferta, Francesco Ghiglietto, Antonio Gionta, Domenico Longo, Christoforo e Petrino Mareneto, Michel Berrone o sia Cortassa (sic!) e Simone Berrone o sia Cortassa (sic!); in ASC, Titolo XXIII, Industria, Cat.1, Stabilimenti industriali e bancari, fasc.1
[52] Informazioni avute dal maresciallo Enrico Galletti del Museo Nazionale di Artiglieria di Torino
[53] A.G.Cimarelli, a cura di, I grandi armaioli dal seicento all’ottocento, in Epoca Armi, allegato al n°1048 di Epoca
[54] H. Ricketts, Armi da fuoco, Torino, 1964
[55] Questo modello ha una vita lunga, come infatti testimoniato dalla necessità, ancora nel primo quarto del XVIII secolo, di prelevare canapa per la realizzazione di micce. In realtà altri modelli più tecnologici si sono affiancati a questo di seconda generazione, si tratta degli acciarini a piastra e poi a pietra. Essendo però questi ultimi modelli molto costosi ebbero minore diffusione ed utilizzo; si spiega dunque il perdurare dell’uso di quello a miccia in canapa montata su serpentina: tecnologicamente semplice e più economico.
[56] ASC, Biblioteca, F.P.Carena, Un uomo che a morire avea spavento.., in Miscellanea di molte cognizioni utili, curiose e dilettevoli, manoscritto, s.d.
[57] O.Appendino, Francesco Gay accensatore delle polveri reali e la canapa di Carmagnola, in Almanacco Storico Carmagnolese, Centro Studi Carmagnolesi, 1998.
[58] M. Abrate, Popolazione e peste del 1630 a Carmagnola, Torino, 1972
[59] A questa data e fino alla prima metà dell’ottocento, i termini tessitore e cordaio (o cordaro) indicano sia il proprietario di laboratorio artigianale sia i lavoranti nello stesso, pertanto non sono direttamente comparabili con i dati specifici riferiti alle sole strutture “proto industriali”, del XIX e XX secolo.
[60] Tessitori in San Giovanni erano Ludovico Basco di anni 55, Bartolomeo Battista di anni 39, Melchior Miletto Bechio di anni 39, in città Giacomino Bertallo di anni 30, Antonio Boggialla di anni 63 e i figli Giovanni Battista di 24 anni e Giovanni Pietro di 19 anni, Bartolomeo Cerrato di anni 39, in Moneta i Bonetto, i Castelasso, Giovanni Giacomo Gonella di anni 51, i Milanesio, Giovanni Doenico Stapina’ di anni 21 ed il padre, in Cascine di Moneta i Razino, in Santa Maria Giorgio Razino di anni 31, Giovanni Agostino Stalla di anni 54. Cordari in San Giovanni erano Agostino Bechio di anni 59 ed il figlio Bartolomeo di 21 anni, Francesco Cerruto di anni 37, in Santa Maria i Faà, in Moneta Nicola Gallo di anni 39. Dati dedotti dal testo di Mario Abrate, op.cit
[61] R. Menochio, Memorie storiche della città di Carmagnola, Torino, 1980, copia anastatica a cura di Gian Giacomo Fissore, Marene, 1993, cfr anche L. Pegolo, Storia della Città di Carmagnola, Carmagnola, 1925
[62] ASC, Titolo XVI, Sicurezza pubblica, Cat.1, Incendi, fasc.3
[63] G. Cortassa, op. cit; cfr. anche G. Caligaris “Lino e canapa: raw materials per lo sviluppo della manifattura in Piemonte” in Economia e Storia, MI, 1980
[64] D.Micchiardi, op.cit.
[65] G.Cortassa, op. cit
[66] ASC, Titolo XV, Catasto, Cat.2, Registri e mappe, voll. dal n.34 al n.39
[67] R.Menochio, op. cit.
[68] ASC, Titolo XXVII, Anagrafe, Cat.1, Censimenti della popolazione, fasc.2
[69] A.Cane, op.cit.
[70] P. Manuele, op. cit.
[71] Mauro Novaresio, Borgo San Bernardo – La sua storia, la sua gente, Marene, 1992
[72] ASC, Titolo XXVII, Anagrafe, Cat.1, Censimenti della popolazione, fasc.3
[73] Vale ancora quanto alla nota N°60
[74] ASC, ibidem
[75] Per famiglie di cordai si intendono ancora (perché non individuate diversamente nei censimenti conservati in Archivio Storico a Carmagnola) sia i proprietari di corderie sia le famiglie di lavoranti
[76] ASC, Titolo XXVIII, Statistiche, Cat.5, Industria, fasc.3
[77] ASC, Titolo XXVII, Anagrafe, Cat.1, Censimenti della popolazione, fasc.3
[78] ASC, Documentazione fuori titolario Cornaglia, Catasto, Catasto Rabbini, voll.1-5
[79] ASC, Titolo XIX, Lavori Pubblici, Cat.1, Costruzione di ponti, fasc. 26
[80] ASC, Titolo XIX, Lavori Pubblici, Cat.5, Costruzione di edifici e fabbricati diversi, fasc.4
[81] ASC, Titolo III, Attività patrimoniali, Cat. 2, Locazione di fabbricati, fasc.12
[82] ASC, Titolo XXX, Liti attive e passive, Cat. Unica, fasc.161
[83] ASC, Documenti fuori titolario Cornaglia, Commercio, Registro n.1
[84] ASC, Documenti fuori titolario Cornaglia, Commercio, Cat.11, Cl. 2-14, fasc.3292
[85] ASC, Documenti fuori titolario Cornaglia, Commercio, Cat.11, Cl. 2-13, fasc.3291 e cfr. anche fasc.3326
[86] ASC, Mostra Provinciale delle Massaie Rurali, Parte II (1915-1962), Cat.11, Cl. 4-34, fasc.3575
[87] ASC, Biblioteca, fasc. 14, Situazione Canapicola Italiana, Relazione presentata dal dr. Oscar Bonfiglioli reggente della Sezione Ordinaria in Portomaggiore, al Convegno Agrario Nazionale in Venezia, il 29 aprile 1933 - XI
[88] ASC, Documentazione fuori titolario Cornaglia, Commercio, Cat.11, Cl. 1-25, fasc.3194
[89] ASC, ibidem
[90] ASC, Biblioteca, fasc.19, Luigi Perdisa, Aspetti e problemi della canapicoltura italiana, relazione letta al Convegno Nazionale della Canapicoltura, Roma, 4/5 giugno 1950
[91] Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, 1948-1960